La sconfitta del movimento operaio ha coinvolto le sue organizzazioni politiche mettendo in crisi tutte le sue strutture, sia quelle riformiste e integrate nel piano capitalistico che quelle rivoluzionarie e antagoniste. Oggi diviene sempre più complicato elaborare un percorso collettivo di critica al capitale e di costruzione di contropotere, non solo per la repressione ma anche perché la situazione di isolamento e di atomizzazione in cui tutti/e siamo coinvolti/e ci porta inesorabilmente a vivere la militanza con difficoltà, spesso aggiungendo alienazione e senso di sconfitta alla vita quotidiana vissuta.
Pur mutando le dinamiche e le possibilità di organizzazione e pur vivendo un contesto completamente cambiato rispetto al terreno nel quale si sono sviluppate le esperienze di autonomia operaia, resta aperta la questione di come resistere allo sfruttamento e alla distruzione delle vite e del pianeta. In estrema sintesi, il processo di dominio del capitale appare ancora più pervasivo e coinvolge, plasmandole a proprio piacimento, realtà che un tempo vivevano separate e costituivano terreni distinguibili nel processo di asservimento ma anche nei percorsi di liberazione. Per questo motivo, oggi appare impensabile una pratica anticapitalista che non sia intersezionale, ossia allo stesso tempo antispecista, antirazzista, contro il patriarcato, per l’ecologia radicale etc. Tutte tematiche che sono sullo stesso piano della questione un tempo “centrale” dello sfruttamento del lavoro salariato e che compongono un piano in cui i soggetti devono immaginare la propria liberazione a partire dalla messa in discussione della propria identità.
Costruire un percorso di autorganizzazione, dal basso, orizzontale, sembra sempre di più un’utopia anche all’interno dei movimenti italiani: ciascuno ha sperimentato negli anni nella propria militanza delle testimonianze negative, con strutture informali ma allo stesso tempo rigidamente gerarchiche, burocratiche, maschiliste e oppressive. Per questo motivo, unitamente alla questione dell’intersezionalità, si pone il problema di costruire una soggettività politica che faccia i conti con questa nevrosi identitaria, pensando delle strutture effettivamente aperte alla espressione di ciascuna/o di noi, luoghi dentro i quali si possa esprimere prima una pratica positiva e poi si possa mettere in discussione, smontare, criticare la figura del militante maschio-bianco-lavoratore-occidentale che detta la linea e pone la questione della conquista del potere statale.
Costruire laboratori su temi specifici di intervento politico e sociale, assemblee aperte all’esterno, pensare un conflitto sostenibile anche da parte di chi non rientra nelle categorie del militante classicamente inquadrato in un’ideologia: tutto ciò pensato con la priorità di moltiplicare le occasioni di conflitto diffondendo e aprendo nuovi percorsi e non perpetuando la propria organizzazione. Un gruppo di affinità oggi dovrebbe basarsi innanzitutto sulla messa in discussione permanente della propria identità così come delle pratiche politiche che decide di intraprendere.