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Il controllo popolare e i fiori tra le catene

Che cos’è il controllo popolare? Se si leggono le dichiarazioni dei militanti che stanno facendo questa esperienza politica, prevalentemente nella città di Napoli intorno al centro sociale Ex-Opg, il controllo popolare (CP) è una forma di attività e di lotta che si inserisce direttamente nella tradizione comunista: “La relazione tra i militanti e le masse popolari è tutta da ricostruire. Gli errori e le sconfitte del passato, anche quello recente, si pagano ancora. Ma i segnali oggi sono positivi. Tra l’“avanguardia” e l’“esercito”, per capirci, va ricostruito un rapporto. Dobbiamo essere capaci di non fare “fughe in avanti”, dobbiamo essere sensibili e affermare sempre la legittimità popolare delle nostre scelte. Se lavoriamo così, il rapporto non può che ricostruirsi e avanzare. Anche il CP è stata un’intuizione – che non è nostra, ma risale alla storia del movimento comunista – che restituisce un consenso popolare enorme e dimostra che c’è predisposizione a mobilitarsi, a partecipare, a uscire dall’indifferenza; ciò avviene ovviamente tra mille contraddizioni e limiti, ma noi comunisti dobbiamo sporcarci le mani e stare nelle contraddizioni, perché solo così riusciamo a cogliere la volontà di mobilitarsi che oggi il popolo dimostra. Se questa volontà non viene raccolta, la colpa non è del popolo, ma delle avanguardie. Sulla ricostruzione di un rapporto con il popolo io sono molto ottimista, forse anche grazie a quest’ultimo anno di militanza che ci è costato tanta fatica ma anche tanti successi. Si apre oggi un grande spazio politico, grazie al lavoro di tanti compagni che stanno avanzando in questa consapevolezza; ricostruiamo il rapporto tra militanti e masse popolari e… andiamo a vincere!” (fonte https://albainformazione.com/tag/controllo-popolare/).

Concretamente, per fare alcuni esempi pratici, questi militanti hanno iniziato a presidiare i seggi durante le elezioni politiche per denunciare eventuali brogli elettorali e influenze della criminalità organizzata. Successivamente, in seguito ad un’assemblea sul “Potere popolare” tenutasi a Napoli, si sono posti l’obiettivo di estendere il CP ad altre situazioni: “Vogliamo estendere il CP a tutto: dall’immigrazione alla lotta contro il lavoro nero, a quella contro gli sprechi sulle opere pubbliche – chiaramente, con un’ ottica di classe: ogni euro tolto allo spreco, deve essere impiegato per le politiche sociali in favore delle masse popolari. La prospettiva è quella di estendere sempre di più il CP, e cercare di relazionarsi con gli altri, avendo una dialettica con tutti i compagni che sono disponibili sulle questioni che riteniamo fondamentali: il CP; la questione dell’Organizzazione e quindi di uno spazio che va riempito nel nostro paese per rappresentare gli interessi dei lavoratori e degli sfruttati in generale” [ibidem].

Ma se si vogliono controllare le istituzioni dello Stato e contemporaneamente le si ritiene espressione del dominio di classe della borghesia, non si cade così in una palese contraddizione? Che senso ha controllare qualcosa che, se funzionasse “bene”, diventerebbe ancora di più uno strumento in mano al nemico delle classi popolari e degli sfruttati? Sempre nella citata intervista, la risposta a questa domanda che aleggia nell’aria è più o meno questa qui: “Non siamo così ingenui da pensare che il nostro sistema è una vera democrazia, ma pensiamo anche che certi spazi di agibilità servono, per incidere a certi livelli e far crescere la coscienza. Con questa riforma [la proposta di riforma costituzionale sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, NdR] si chiuderebbero una serie di spazi di agibilità, in esatta controtendenza al CP! Se noi per CP intendiamo il controllo dal basso, l’autorganizzazione, l’attribuzione di potere al popolo, dall’altro lato si sposta sempre di più il potere nelle mani del governo, che poi è il comitato d’affari di un blocco di potere borghese”.

Questa risposta non appare per nulla convincente: non si spiega in base a quale dinamica queste istituzioni del dominio, una volta controllate dal popolo (in realtà, lo si ammette pure sfacciatamente, dalla nuova “avanguardia” che si relaziona al popolo in termini di metafora militare) dovrebbero cambiare segno. In sostanza si propone la vecchia tattica della “lunga marcia nelle istituzioni”, la stessa che ha portato il Partito Comunista Italiano nel nostro paese a trasformarsi lentamente da terminale del Comintern sovietico fino a diventare il principale partito della borghesia filo-atlantica attraverso il Partito Democratico odierno.

Siccome sono stati gli stessi attivisti durante il controllo popolare dei seggi alle elezioni a richiamarsi direttamente alla “migliore” tradizione del PCI (come si poteva leggere sulla pagina Facebook dell’Ex-Opg in quei giorni), questo riferimento politico non è certo campato in aria, anzi, bisogna dire che è stato anche efficace in senso propagandistico: molte persone, appartenenti a quel cosiddetto “popolo della sinistra” italiano, hanno avuto modo di apprezzare il controllo della regolarità delle elezioni, così come molti hanno apprezzato il sostegno del CP al sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Poiché risulta complesso smascherare il carattere fallimentare e reazionario del CP nel contesto delle elezioni politiche (a chi non fa schifo il condizionamento intimidatorio della camorra nei seggi…), andiamo direttamente ad un altro settore che vorrebbe essere “controllato dal basso”, ossia quello dell’immigrazione.

Nel caso specifico gli attivisti del CP vorrebbero estendere nel settore dei “centri di accoglienza” ai migranti lo stesso controllo esercitato durante le elezioni: questi centri dovrebbero funzionare in maniera rispettosa dei diritti umani, tenendo fede alle promesse fatte ai migranti (compresa l’elargizione effettiva del misero “pocket money” quotidiano), evitando le influenze sui centri di corruzione, razzismo e spreco di denaro pubblico. Purtroppo, il sistema di “accoglienza” non è che un passaggio nel più complesso sistema di controllo statale delle persone migranti nel contesto della chiusura delle frontiere, della detenzione dei migranti e della loro deportazione. Qui insomma la contraddizione appare più scoperta: come si può esercitare potere popolare in questo contesto? Soprattutto, viene da dire, chi è il soggetto che deve esercitare questo potere: il militante politico bianco europeo comunista o il migrante che è incappato in questo sistema infernale di accoglienza-dentenzione-espulsione? Chi decide le parole d’ordine della lotta e della mobilitazione? L’avanguardia o la retroguardia?

Questo inceppo logico e politico porta a conseguenze anche tragicomiche, infatti nel contesto di assemblee e di movimenti di sostegno ai migranti abbiamo visto e sentito i militanti del CP chiedere una “centralizzazione e nazionalizzazione” del sistema di accoglienza, come se non fosse già oggi lo Stato a centralizzare nelle sue mani le vite delle persone: dal diniego del visto per l’accesso in Italia fino al viaggio sull’aereo delle Poste Italiane che li deporta in Nigeria i migranti conoscono sulla loro pelle il concetto di intervento dello Stato.

L’obiezione finale e definitiva a questa mia critica potrebbe essere la solita: sì, ma questo percorso ci avvicina alla presa del Potere, perché allarga il consenso e nel frattempo cresce l’attività delle masse che, una volta conquistato il governo dello Stato, saranno poi in grado di farlo funzionare in funzione degli interessi degli sfruttati. Questa obiezione, ahimè, è stata sconfitta non dalla teoria scritta a tavolino dagli intellettuali comunisti e rivoluzionari, ma dalla prassi e dall’esperienza storica del secolo XX. Anche sulla teoria, tuttavia, ci sarebbe da dire: non mi risulta nemmeno che la concezione di Karl Marx (nemmeno quella di Lenin in verità, forse solo quella del Gramsci interpretato da Palmiro Togliatti) fosse quella dell’impadronirsi della macchina statale per governarla poi. Tutta la critica alla socialdemocrazia (allora appena agli albori nella storia del movimento operaio) di Marx lo dimostra. Un’espressione figurativa del padre fondatore del “socialismo scientifico” ci ricorda molto bene il triste esito di tutti questi tentativi simili a quello del controllo popolare: mettere dei fiori tra le catene degli sfruttati.

Un’ultima obiezione rimane questa: all’interno di un discorso politico più ampio e precedente alla presa del potere, queste dinamiche di movimento quanto meno creano organizzazione, mobilitazione, egemonia e crescita della politica di una sinistra dal basso. Il problema però qui si pone rispetto a quelle basi teoriche e pratiche di come vogliamo costruire una società alternativa dentro questa stessa società capitalistica: cosa significa il processo di orizzontalità, chi prende le decisioni all’interno dei processi di lotta, come funzionano gli organismi di movimento e autogestione e, soprattutto e finalmente, che cosa intendiamo per contropotere, per istituzioni alternative. Se le istituzioni di contropotere che cerchiamo di costruire in questa società coincidono completamente con quelle del nostro nemico, se invece di costruire luoghi diversi e altri non facciamo che controllare che le istituzioni che ci reprimono mantengano le loro squallide promesse di un funzionamento tecnicamente ineccepibile. Se, insomma, non ci limitiamo a voler inserire in maniera pietosa e ipocrita dei fiori nelle catene dello sfruttato (ovviamente riuscendo sempre a guardare solo le catene altrui, non quelle che, magari invisibili, abbiamo noi per primi)e non abbiamo almeno il senso del sogno e della dignità di spezzarle per una buona volta, quelle catene.