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Otto marzo e transfemminismo queer

Ieri, otto marzo, grande mobilitazione a livello mondiale con “Non una di meno” in 51 paesi e grande successo di questo movimento su scala globale. Non sempre, però contenuti che stanno diventando patrimonio di tant* riescono ad affermarsi come e quanto vorremmo: accade troppo spesso che ogni mobilitazione venga declinata principalmente in favore dei “diritti del femminile”.

Ancora non appare chiaro che la distinzione per genere determina una divisione in categorie inutile ma funzionale unicamente alla messa in atto di processi discriminatori e normativi.

Il genere non è un semplice derivato del sesso anatomico assegnato alla nascita ma una costruzione sociale e culturale realizzata dai diversi dispositivi istituzionali: famiglia, chiesa, scuola e sistemi educativi, sistemi sanitari, ma anche mezzi di comunicazione, linguaggio, cinema, letteratura, arte.

Se dunque è davvero solo una mera costruzione senza reali ricadute nella pratica quotidiana perché si dovrebbe combattere per la sua decostruzione più che, ad esempio, per la parità di salari delle donne?

Scrive Teresa De Lauretis: “La natura discorsiva del genere non esclude che ci siano reali implicazioni, o effetti concreti, sia sociali che soggettivi, nella vita materiale delle persone. Al contrario, la realtà del genere è precisamente negli effetti della sua rappresentazione; il genere è realizzato, diventa “reale” quando quella rappresentazione è un’autorappresentazione, è assunta singolarmente come una propria forma di identità sociale e soggettiva. [“Gender identities and bad habits”, 2008].

E’ in questo modo che la stabilità metafisica del termine “donne” viene decostruita dall’utilizzo del termine “genere”, non solo a livello nominale e semantico, e finisce per erodere ogni grammatica esclusivamente femminista. Laddove si vede l’oppressione delle donne esiste in realtà un meccanismo di funzionamento di un insieme di oppressioni di genere che producono differenze non solo come binarismo (uomo/donna) ma anche differenze sessuali (omo/etero), razziali di classe, di corporeità, di abilità, di età, di specie, e ancora, e ancora, e ancora. Tutt’altro che richiamare ancora il fantasma agonizzante della donna-vittima e dell’uomo-oppressore.

E anche per questo che il richiamo continuo alle lotte femministe che furono non ha oggi nessuna efficacia. Se riconoscere alle iniziali lotte femministe una forte carica sovversiva è doveroso, è altrettanto importante riconoscere che essa è stata rapidamente riassorbita e riutilizzata dal pensiero dominante. Perché non è quindi conquistando piccoli spazi di libertà per gruppi scelti che si sottrae tutt* dal sistema capitalistico e patriarcale.

O sarà lotta transfemminista e queer o non sarà!